Sardegna, quando l’accoglienza mira alla vera “progettualità”

Coordinamento e strategie condivise caratterizzano l’impegno della Caritas di Cagliari e delle cooperative sociali di Federsolidarietà a favore dei profughi. Tra i punti di forza, “piccole strutture” e un confronto costante tra gli operatori

di Maria Chiara Cugusi

Sinergia, confronto e dialogo costante tra operatori caratterizzano il modello di accoglienza offerto dalla Caritas diocesana di Cagliari e dalle cooperative sociali di Federsolidarietà impegnate nel “Coordinamento Sardegna emergenza umanitaria Nord Africa”. Il valore aggiunto è dato da un’organizzazione basata su piccoli nuclei: “Un coordinamento unico in Italia per l’accoglienza dei profughi in piccole strutture (massimo 15/20 ospiti in ognuna) – sottolinea Carlo Tedde, referente territoriale del Consorzio Nazionale Connecting People -, che cerca di rendere più umana l’integrazione e l’inclusione dei profughi nelle comunità locali”. L’obiettivo è anche “quello di trasformare le buone prassi in istruzioni operative e procedure che scaturiscono dalla condivisione delle esperienze”.

Dialogo e assistenza sanitaria, i punti cardine del sistema


Punto di forza del sistema è l’assistenza sanitaria, garantita dall’ambulatorio Caritas, in stretto contatto con gli enti ospedalieri. “Abbiamo fatto screening a tappeto per Hiv e tubercolosi – spiega Anna Cerbo, responsabile dei servizi medici della Caritas -,  oltre che la campagna vaccinale per tutti i bambini”. Tra i problemi maggiori, oltre alla diffidenza iniziale, anche il diverso background culturale: “Per la maggior parte, gli immigrati – continua la Cerbo – non conoscono il concetto di prevenzione e vengono da paesi dove non potevano curarsi, a causa dei costi troppo elevati. Mi ha colpito il caso di un ragazzo, di 22 anni, ora sotto cure mediche, che nel suo paese avrebbe rischiato di diventare cieco per una banale cataratta. Molti immigrati, inoltre, sono affetti da sordità, qualcuno a causa delle percosse subite”. Dovere del medici è la prudenza, evitando ogni forma di ghettizzazione: “Abbiamo alcuni pazienti affetti da Aids – continua la Cerbo – : nel loro paese, questa malattia significa morte, mentre cerchiamo di far capire loro che qui è una malattia, da cui non si guarisce, ma che può essere cronicizzata”.

Il valore aggiunto è dato dal confronto e dialogo costante tra gli operatori e la Protezione Civile. “A volte ci sembra di non fare abbastanza, ma abbiamo la consapevolezza di non essere soli”, spiega Carlo Tedde. Tra i problemi maggiori, il rapporto con le istituzioni e la mancanza di percorsi di inserimento lavorativo. A Sorgono, il Consorzio Solidarietà ha preso in carico 18 nigeriani. “Nonostante la generosità della società civile, con gli Enti Locali – continua Tedde – forse per la novità data dall’emergenza, non si è riusciti a fare molto. Il Centro Italiano Femminile in raccordo con il volontariato ha messo a disposizione delle ragazze Nigeriane alcune macchine da cucito, per organizzare dei corsi, ma manca ancora un intervento pubblico coordinato che permetta di avviare tirocini formativi”.

Un modello di accoglienza basato su piccoli “nuclei”, dove, però, la convivenza resta difficile e, ogni giorno, gli operatori cercano di aiutare gli immigrati a superare pregiudizi e paure. “Molti condomini – spiega Don Marco Lai – non sono facili da gestire, perché, per situazioni legate alla guerra, gli immigrati sono abituati a non dormire, quasi che il buio possa avere una qualche ingerenza sulla loro serenità: e ciò comporta uno stravolgimento delle giornate degli altri”. Per non parlare poi della cosiddetta “sindrome della fame”, determinata anch’essa dall’esperienza pregressa della guerra: provviste accumulate sotto i letti, che rischiano di guastarsi, difficile far capire agli immigrati che qui non c’è questa necessità. Ci sono poi le differenze “territoriali”, con comuni che offrono maggiori opportunità rispetto ad altri, e diverse modalità di sistemazione: “Chi vive in una struttura o in un albergo – spiega Laura Manca, Vicepresidente di Federsolidarietà Sardegna – ha minore indipendenza rispetto a chi vive in appartamento, con divieti che creano una sorta di muro psicologico che ostacola il processo di acquisizione dell’autonomia; mentre il nostro compito dovrebbe essere quello di sostenerli in percorsi miranti a farli sentire adulti e responsabili”.

Ecco perché occorre puntare su percorsi orientati verso la conquista dell’autonomia, senza però bruciare le tappe: “Il primo obiettivo – spiega Don Marco Lai – è investire nell’insegnamento dell’italiano, per consentire loro di essere competitivi e di non rimanere ai margini della società. Abbiamo immigrati che dopo due anni non capiscono ancora la nostra lingua e sono costretti a dormire in auto”. L’obiettivo è favorire la conoscenza della realtà ospitante, perciò, “stiamo investendo anche su un secondo modulo – continua Don Marco Lai -, dalle lezioni di educazione civica a quelle di educazione stradale, dalla scuola alla salute: dobbiamo cercare di dare loro quegli strumenti fondamentali per proteggerli dal rischio di diventare gli ultimi della fila”.

Una gradualità importante anche dal punto di vista psicologico, per evitare “la nascita di patologie determinate dalla frustrazione del non riuscire a inserirsi nel territorio”, sottolinea Simona Murtas, responsabile del Centro d’ascolto Kepos. Il supporto psicologico è fondamentale: “la maggior parte di loro – continua la Murtas – soffre delle patologie legate al trauma migratorio, che spesso provoca una sorta di “scollamento” tra corpo e psiche: con il corpo si spostano, ma con il cuore sono ancora nei loro paesi”. Ecco perché al di là dei singoli colloqui, “dobbiamo investire nell’educazione alla conoscenza del territorio, che consente di dare un significato alla propria permanenza in un nuovo contesto culturale”. Solo così si può pensare a un successivo inserimento lavorativo, attraverso tirocini formativi, ma anche incentivi alle aziende, borse di lavoro.

Un percorso che deve mirare a superare le diffidenze e favorire la conoscenza reciproca. Il laboratorio “F-orme e colori dall’Africa” ideato dalla cooperativa Alkjmilla ha proprio questa funzione: “Gli immigrati hanno la possibilità di raccontare il loro paese – spiega Monia Podda, educatrice- : per esempio, attraverso delle cartine, abbiamo riprodotto il viaggio che hanno compiuto”. Tante piccole iniziative solidali, ma per ora nessun intervento strutturato da parte delle istituzioni. “Ci siamo sentiti soli – sottolinea Stefania Russo, responsabile della cooperativa Sicomoro -: senza la Caritas non saremmo riusciti a garantire neanche l’assistenza legale”.

Puntare alla progettualità, per superare la logica assistenziale


In vista della seconda accoglienza, si mira a promuovere una progettualità capace di superare la logica assistenziale e favorire la reale integrazione. Obiettivo, programmare interventi capaci di “accompagnare” quegli immigrati, che rimarranno nell’Isola, verso una reale autonomia, grazie al dialogo costante. “Un confronto necessario – spiega Don Marco Lai, direttore della Caritas diocesana di Cagliari – per individuare strategie comuni tra i soggetti gestori, in base alle esperienze fatte da ognuno di loro”. Tra le priorità, sostenere i ricorsi di chi ha ricevuto diniego, cercando di “abbattere” le frontiere e favorire la vera accoglienza. La prossima “tappa” sarà l’incontro con la Caritas italiana, per stabilire una serie di procedure condivise a livello nazionale.

Priorità, definire le linee guida nell’uso di quelle risorse già messe a disposizione dalle istituzioni per la cosiddetta “seconda accoglienza”, attraverso forme di collaborazione soprattutto con il terzo settore. “Il tavolo regionale – sottolinea Don Marco Lai – ha destinato 500mila euro alla progettazione di accompagnamento verso l’autonomia. Sarà fondamentale incidere nella delibera, stabilire aree di intervento precise e riuscire a garantire un’accoglienza assimilata al modello Sprar”.

Un occhio di riguardo sarà rivolto all’assistenza legale e ai ricorsi di chi ha ricevuto diniego, già presentati al Tribunale di Roma, per cercare di chiarire le criticità emerse, dalla discriminazione di alcune nazionalità, come quella nigeriana, fino alle audizioni effettuate davanti a un solo commissario. In programma, anche un’azione coordinata tra legali Caritas, per sollevare una vera e propria “questione politica”, attraverso due azioni parallele: “Intendiamo intasare i tribunali  di ricorsi – spiega Piergiorgio Deidda, avvocato Caritas – e accompagnare le audizioni con certificati sanitari, che dimostrino la presenza di sindrome depressiva post-traumatica”. Inoltre, ci sono da affrontare “diverse contraddizioni – continua Deidda – : perché, ad esempio, ad alcuni tunisini è stato concesso il permesso di soggiorno rinnovabile e, invece, alcune nazionalità sono state respinte, senza considerare la loro lunga permanenza in Libia, un paese in guerra?”

Occorre poi, puntare, sull’ “accompagnamento” verso le audizioni e sul potenziamento della mediazione, in modo da favorire una maggiore consapevolezza da parte degli immigrati. Per quest’ultimo punto, “i soldi sono già stati messi a disposizione – spiega Don Marco Lai – , il problema è capire quali province potranno gestire le risorse in prima linea, nel momento in cui questi progetti, seppur fuori dai bilanci diretti, vanno comunque a incidere sul patto di stabilità”.

Si affronterà anche il caso di rimpatrio volontario assistito, che dovrebbe essere garantito da una rete di associazioni, cercando di prevedere anche la possibilità del ritorno, anziché nei paesi d’origine, in Libia, dove la maggior parte dei profughi lavorava da anni.